Il diritto al riuso, a pedali: le ciclofficine popolari come infrastrutture sociali della mobilità sostenibile

In molte città esistono luoghi dove l’economia circolare si mette in pratica ogni giorno: le ciclofficine popolari. Qui gli attrezzi passano di mano in mano, i pezzi di recupero tornano a vivere e il sapere meccanico diventa bene comune. Sono spazi dove ci si incontra, si impara, si ripara e intanto si riducono i rifiuti, si prolunga la vita degli oggetti e si sposta l’immaginario collettivo verso la bici come mezzo quotidiano. La formula è semplice: condivisione di strumenti, tutoraggio tra pari, recupero di telai e componenti, spesso a offerta libera o con una piccola quota associativa.

Le ciclofficine, o community bike shops, nascono dall’incontro tra tre spinte sociali: l’attivismo urbano, la critica ecologista e la cultura dell’autoproduzione. La loro genealogia risale al 1965, quando il movimento olandese Provo lanciò ad Amsterdam il Wittefietsenplan, il “piano delle biciclette bianche”: un esperimento di mobilità collettiva che metteva a disposizione biciclette gratuite, condivise e senza lucchetto. Negli anni ’70 e ’80, la crescente attenzione ecologista e la cultura del do it yourself trovano nei laboratori di autoriparazione un terreno comune. A Vienna, nel 1983, nasce una delle prime ciclofficine al mondo, la Fahrrad.Selbsthilfe.Werkstatt, ospitata nel centro culturale autogestito WUK, dove chiunque poteva imparare a riparare la propria bici e riutilizzare materiali di scarto, anticipando di decenni l’idea di economia circolare. Negli anni Novanta il modello si diffonde tra Stati Uniti ed Europa. A Portland, nel 1994, nasce il Community Cycling Center, che unisce educazione, inclusione sociale e riuso delle biciclette.

Foto: pagina facebook Community Cycling Center

In Francia, le esperienze nate negli anni Novanta confluiscono in una rete nazionale: nel 2008 si tengono a Dijon le prime Rencontres Nationales des Ateliers Vélo Participatifs et Solidaires (Incontri nazionali delle officine di biciclette partecipative e solidali), da cui nasce il manifesto per L’Heureux Cyclage (La pedalta felice), e una rete nazionale che oggi conta circa 200 officine, promuoventi la vélonomie, cioè la capacità di essere autonomi con la propria bicicletta. Il network fornisce formazione, strumenti legali e visibilità pubblica ai diversi progetti, trasformando un insieme di iniziative spontanee in un’infrastruttura sociale della mobilità dolce. Con il tempo, molte ciclofficine sono diventate anche spazi di inclusione. È il caso della London Bike Kitchen, che nel mondo ancora prevalentemente maschile della meccanica ciclistica propone uno lo staff è composto da donne e persone non binarie che rivendicano le loro competenze e conducono i corsi “senza paura di sporcarsi le mani”.

Foto: Pagina Facebook ciclofficina “Rimessa in Movimento”

In Italia, le prime ciclofficine popolari nascono a Roma all’inizio degli anni Duemila, come spazi autogestiti. Da quel nucleo iniziale si diffonde una rete di esperienze locali, ognuna con la propria impronta. A Modena, la Ciclofficina Popolare “Rimessa in Movimento” nasce nel 2010 con l’obiettivo di sostenere la mobilità ciclistica “attraverso la condivisione del sapere meccanico”, come si legge nel loro statuto. È un’associazione senza scopo di lucro sostenuta da volontari, tesseramento e offerte, che promuove riciclo, riuso e autonomia. Nell’ottobre 2025 ha ospitato per la prima volta in città i Campionati di Ciclomeccanica, una competizione informale tra ciclofficine e gruppi di appassionati, durante la quale bici destinate alla rottamazione, fornite dal Comune, sono state restaurate e poi messe all’asta a scopo benefico.

A Reggio Emilia, la Ciclofficina Raggi Resistenti ha seguito un percorso diverso da altre esperienze simili. Nasce come laboratorio tecnico e sociale all’interno di uno stabile occupato da migranti e richiedenti asilo rimasti senza casa. Da quell’esperienza di autorganizzazione e di rivendicazione del diritto all’abitare legata all’associazione Città Migrante, è nato un progetto che unisce accoglienza, formazione e mobilità sostenibile che oggi è una impresa sociale a tutti gli effetti, capace di offrire lavoro stabile e dignitoso, corsi e servizi di rigenerazione delle biciclette. Un luogo di integrazione e autonomia, dove il “diritto al riuso” si intreccia con quello alla mobilità e all’inclusione.

Guardando queste esperienze nel loro insieme, emerge un tratto comune: le ciclofficine sono infrastrutture sociali multiservizi che uniscono sostenibilità ambientale e inclusione. Riducono rifiuti e sprechi rimettendo in circolo biciclette e componenti; orientano i comportamenti,

facilitando la scelta della bici come mezzo urbano; diffondono competenze, alfabetizzando migliaia di persone alla manutenzione e alla sicurezza e creano luoghi di fiducia e scambio.

Come SABAR crediamo che raccontare e sostenere esperienze come le ciclofficine contribuisca a riconoscere il loro valore civico, che non sta solo nel ferro salvato dal cassone, ma nel capitale sociale che si genera ogni volta che una riparazione diventa una competenza condivisa. Reti come queste mostrano come, lavorando insieme e scambiandosi buone pratiche, sia possibile moltiplicare gli effetti positivi misurabili in gesti concreti: una ruota centrata, un telaio salvato, una persona in più che torna a casa pedalando.

 

*Foto in copertina: Pexels